Quel momento imba-razza-nte*: la codifica razziale in Dungeons & Dragons

Di Reuben Williams-Smith. Pubblicato originariamente il 24 Settembre 2018 in Autosave con titolo “That Orc-ward Moment: Racial Coding in Dungeons & Dragons” (* il bellissimo gioco di parole originale è difficilmente riproponibile in Italiano).

Tradotto da Claudia Pandolfi.

Il Fantasy è un genere che si porta dietro un grosso bagaglio di problemi, e il suo gioco di ruolo per eccellenza non fa eccezione

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Immagine di copertina dal Manuale del Giocatore di Dungeons & Dragons, © Wizards of the Coast.

Amare qualcosa significa anche riconoscerne i difetti. I generi -e persino intere forme d’arte- hanno dei problemi radicati in profondità, e decadi dopo siamo ancora alle prese con le conseguenze di cattive decisioni.

Nel caso specifico, Dungeons & Dragons.

Amo D&D, mi ha regalato infinite ore di divertimento -a imparare le regole, costruire personaggi variopinti e dare loro vita insieme ai miei amici. È gratificante sia intellettualmente che creativamente, e spingerei praticamente chiunque che abbia un paio di amici e qualche ora libera a provarlo. Ma mentirei se dicessi che era perfetto, e i suoi elementi peggiori risalgono alla narrativa fantasy che l’ha ispirato.

Il Fantasy gode di cattiva reputazione per quanto riguarda questioni di razza e diversità razziali, in larga parte meritata. O perché riduce le culture a una manciata di riferimenti esotici accuratamente selezionati, come abbiamo visto con WoW nell’articolo di Owen, oppure perché le ignora completamente, creando un mondo dove tutti sono più bianchi di cigni in mezzo a una bufera di neve.

In Dungeons & Dragons, invece, si tratta di creare un mondo e dei personaggi che lo popolano, esattamente nel modo che più ti aggrada. Ci sono delle opzioni precostituite per background e classe, proprio come nei processi di creazione del personaggio della maggior parte dei giochi di ruolo. Il problema si pone al momento della selezione della “razza”.

Ci sono 7 opzioni “razziali” nel Manuale del Giocatore della 5a edizione di D&D, ciascuna con i suoi “tratti razziali”. Le opzioni disponibili coprono gli standard fantasy come Umani, Elfi, Nani e affini. Includono anche scelte più oscure, come i Tiefling (gente-demone), i Dragonidi (gente-drago) e i Mezz’orchi (stereotipi imbarazzanti). Ciascuna ha i propri tratti con possibilità di ogni tipo, dal modificare le tue statistiche di partenza al concederti abilità e incantesimi unici. Comunque, la parola più appropriata è “specie”.

Le cosiddette “razze” in D&D non sono culture diverse dello stesso popolo, ma piuttosto specie biologicamente separate. Il concetto che certe razze o gruppi etnici hanno tratti genetici che li rendono più forti, più veloci o più intelligenti, o più inclini al bene o al male è un orribile retaggio del colonialismo, i cui atteggiamenti hanno condizionato i suoi scrittori più influenti.

I popoli non umani sono quasi tutti raggruppati in una singola monocultura, con tratti, capacità e abilità specifiche dell’intero gruppo.

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Immagine dal Manuale del Giocatore di Dungeons & Dragons, © Wizards of the Coast.

Ci sono differenti etnie degli Umani del Manuale del Giocatore, con le loro proprie convenzioni di nomenclatura e caratteristiche fisiche generali, e il consenso generale sembra attestare che tutto quanto sia ben accordato. Il pregiudizio è riservato ai popoli non umani . Gli stereotipi su Nani, Elfi e Halfling sono perlopiù neutrali, ma popoli tradizionalmente più mostruosi come gli Orchi subiscono ben di peggio. Loro hanno la pelle scura e un’estetica tribale, una cultura guerriera e una predilezione per la violenza. I Mezz’Orchi sono presentati come un’opzione nel Manuale del Giocatore; si presume siano bruti pericolosi, facili alla rabbia e con tendenze violente.

In un Fantasy più coloniale, quindi, Orchi e Mezz’Orchi rappresenterebbero chiaramente i neri. Tribù di massicci bruti, con una passione per le cose semplici, come bere e combattere, minacciosi nei confronti della gente che incontrano. E per questo, possiamo incolpare Tolkien.

Niente viene fuori dal nulla. L’arte ispira l’arte, e quando Dungeons & Dragons saltò fuori dal mondo dei war game, e dalla storia della fiction fantasy-western degli anni Settanta, le sue ispirazioni erano palesi. In particolare il Signore degli Anelli, la pionieristica trilogia di J.R.R. Tolkien, fu impiegato in prima linea nella creazione del mondo e dell’atmosfera del gioco.

Per quelli che non lo conoscono, il Signore degli Anelli tratta le vicende di un mondo fantastico chiamato Terra di Mezzo. Il posto è occupato dalle Razze Buone, Umani, Elfi, Nani e simili, e dalle Razze Cattive, come Orchi e Goblin. Ora, se non avete colto il sottile sottinteso nella frase precedente, i buoni nel SdA sono quasi esclusivamente uomini bianchi simil-europei. Sono tutti belli e dalla pelle chiara (qualità portate al livello di super-umani dagli Elfi, ostentati come i Più Buoni e Più Puri del mucchio), e persino i goffi hobbit sono rubicondi modelli della virtù rurale inglese. Di contro, le Razze Cattive hanno tutte pelle scura, narici ampie, labbra carnose e dreadlocks. Sono considerate brutte e mostruose, e come se non bastasse la loro apparenza ne conferma la malvagità intrinseca. Impariamo a empatizzare e a riconoscerci in personaggi che ci somigliano, a riflettere su di loro il modo in cui percepiamo noi stessi e anche quando ero bambino mi era evidente che avevo più in comune con i cattivoni del SdA che con, per esempio, Viggo Mortensen.

D&D ha subìto numerosi cambiamenti nel corso dei decenni, di edizione in edizione. Nonostante all’inizio abbracciasse calorosamente gli aspetti più trash del Fantasy tolkieniano, nel 2014, quando la Wizards of the Coast rilasciò la 5a edizione di Dungeons & Dragons, le cose erano già migliorate. L’immagine dimostrativa dell’Umano è una donna di colore, e tutti e tre i manuali principali sono pieni di illustrazioni di personaggi di tutta una gamma di etnie, ritratti in tutte le pose tipiche dell’eccitante non-sense fantasy. L’intento è chiaro, ed è accantonare lo stereotipo del club per soli ragazzi bianchi che i GDR da tavolo hanno guadagnato in un qualche momento perso nelle nebbie del tempo e portare avanti la loro intenzione dichiarata: Dungeons & Dragons è per tutti.

Al razzismo non ci si riferisce direttamente in nessuno dei materiali ufficiali, come potreste aspettarvi da un gioco progettato per raggiungere un target ampio ed essere adatto alle famiglie. D&D è tanto flessibile che, sia nel caso usiate l’ambientazione di una campagna precostruita sia che creiate la vostra, le influenze possono provenire da qualsiasi mondo reale o cultura immaginaria vogliate.

Un esempio calzante è il libro di D&D, “Tomb of Annihilation”. Uscito a Novembre dello scorso anno, ToA è un’avventura completa, il che significa una storia auto-conclusiva e una missione epica che conduce i giocatori nella giungla del continente Chult. Chult è, molto chiaramente, una rappresentazione dell’Africa centrale. Il suo popolo è di pelle scura, con acconciature e abbigliamento che richiamano lo stile di vere culture africane. Questo pezzo su Kotaku va più nel dettaglio sui modi in cui crea un luogo riuscendo o non riuscendo a sbarazzarsi delle francamente fastidiose retoriche coloniali che hanno dato forma alla versione originaria di Chult.

Per quanto la decisione di mantenere il passato coloniale di Chult nell’ambientazione sia coerente con l’eredità storica del gioco, in questo modo si perde l’occasione di riparare ad alcuni errori del passato. Forse è realistico che una terra ricca di risorse naturali attragga degli invasori, ma quando una di queste risorse naturali è un metallo spaziale magico, non dovrebbe richiedere un grosso sforzo immaginativo pensare che i Chultiani abbiano sconfitto i potenziali colonizzatori. Si suppone sia un Fantasy, dopotutto. Wakanda con i dinosauri, presente?

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Immagine dal Manuale del Giocatore di Dungeons & Dragons, © Wizards of the Coast.

Perciò all’interno della narrazione del gioco ci sono persone canonicamente nere, in un mondo privo di razzismo. Eccezionale! Lo è davvero: la libertà di presentare il tuo personaggio in qualunque modo tu voglia senza preoccuparti di un giudizio impari o di un trattamento differente è una fantasia potente di per sé. Se voglio giocare un mago con un dashiki e la capigliatura afro invece che una veste e la calvizie, allora posso. E dovrei! E probabilmente lo farò!

Ma trasferendo la presenza di stereotipi sulle razze fantasy, gli autori non hanno eliminato la presenza di razzismo dal gioco, hanno solo spostato il bersaglio. Essere un Umano non porta con sé presupposti negativi, ma in compenso lo fa l’essere un non-Umano.

Come accennato sopra, la narrativa Fantasy può essere uno spazio complicato da navigare, specialmente laddove interpretare questi atteggiamenti rinforza un vuoto senso di imitazione dei pregiudizi del mondo reale pur consentendo la comoda pratica di escludere vere minoranze etniche dall’appartenenza ad un mondo. Gli Umani di D&D, qualunque sia la loro etnia, non sono trattati in modo diverso. Il trattamento del pregiudizio ne viene banalizzato, perché l’obbiettivo di questo serio problema del mondo reale non sono persone reali e diventa facile quindi accettare e liquidare. I personaggi di Chult hanno la pelle scura, ma non sono Neri. Non nel senso di essere una minoranza, trattati ingiustamente e diffamati sulla base di stereotipi riguardo il loro intero gruppo veicolati dalle affermazioni di pochi “bellissimi” assassini.

Il Mezz’orco è l’opzione primaria offerta dal Manuale del Giocatore a coloro che vogliano aggiustare le proprie retoriche problematiche. E assottiglia anche il già abbastanza labile confine tra “razza” e “specie”. Essendo un mix di due differenti popoli, si porta dietro lo stigma e le aspettative da ciascuno. Per i Mezz’orchi cresciuti tra gli Umani, questo significa una vita passata a venir giudicati per le proprie origini, non abbastanza Umano per essere degno di fiducia, non abbastanza Orco per essere rifiutato del tutto.

È difficile, a volte, non vedere rappresentazione ovunque puoi trovarla, ma essere presi in mezzo tra due culture molto differenti, con chiunque incontri che ti giudica in base alle loro aspettative su come ti muoverai, ti esprimerai e ti comporterai, derivate dalle storie raccontate dai loro nonni sulle persone che hanno la pelle del tuo stesso colore è spesso una cosa fin troppo reale.

Per alcuni, questa è una situazione in cui non si sono mai imbattuti prima, e non sto cercando di insinuare che alcuni degli autori del gioco siano segretamente razzisti o covino idee sorpassate sul matrimonio interrazziale. Credo che abbiano fatto un lavoro pazzesco con il casino così controverso che hanno ereditato e che abbiano apportato cambiamenti davvero positivi nella narrativa del loro gioco. Ma alcune cose posso cambiare così tanto, costrette da anni di storia e lasciti, che dobbiamo imparare ad accettare o bypassare completamente.

Non sto neanche dicendo che chiunque non sia d’accordo con me su questo sia razzista. I GDR da tavolo sono un sacco divertenti, le meccaniche di combattimento a turni di D&D sono esilaranti e creative, coinvolgenti al pari di qualsiasi videogioco. I loro mondi possono significare cose diverse per persone diverse e il contesto della storia è deciso dal gruppo seduto al tavolo molto più che da qualsiasi manuale. Ogni tanto vuoi solo rilassarti, lanciare qualche dado e uccidere qualche mostro. Ma può essere difficile farlo quando i cattivi sono cattivi solo perché somigliano a te.

Un pensiero riguardo “Quel momento imba-razza-nte*: la codifica razziale in Dungeons & Dragons”

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