Come il mio personaggio in un gioco di ruolo mi ha mostrato la possibilità che fossi una donna

Di Joan Moriarity. Pubblicato originariamente il 18 Ottobre 2019 in The Washington Post con titolo “How my role-playing game character showed me I could be a woman”.

Tradotto da Claudia Pandolfi.

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BURBANK, CALIFORNIA. 13 APRILE: Schede dei personaggi e dadi a 20 facce dice usati per giocare una sessione di Dungeons and Dragons al Geeky Teas di Burbank, Ca. il 13 Aprile 2019. (Iris Schneider/Per il Washington Post)

Essere un’altra persona mi ha dato un assaggio di come sarebbe potuta essere la mia vita se l’avessi vissuta mostrando apertamente chi sono.

La barriera tra il reale e l’immaginario è porosa, e il gioco è più potente di quanto la maggior parte di noi creda. Dopo tutto, ogni cosa reale che noi creiamo comincia con un’idea, e quando dedichiamo tempo e amore ad un’idea -persino una riconducibile alla pura finzione- quella creazione può avere su di noi impatti sorprendenti. Nel mio caso, i risultati furono decisivi. La mia vita è stata trasformata, e non di poco, a causa di ciò che ho imparato dal mio personaggio in un gioco di ruolo.

Ho approcciato i giochi di ruolo -nei quali chi gioca assume identità fittizie in un’ambientazione strutturata, tipicamente sotto la guida di un o una “game master”- quando avevo 10 anni. La copertina del manuale base di Dungeons & Dragons del 1981 aveva un’accattivante immagine dipinta dall’artista fantasy Erol Otus, noto per la sua insolita visione della bellezza e dell’orrore: una dama bionda in abito rosso, nell’atto di lanciare una palla di fuoco verde magico contro una grossa, spaventosa creatura. Col senno di poi, non sembrava abbigliata e armata in modo adeguato all’esplorazione di dungeon pieni di mostri. Tuttavia il suo abito era meraviglioso, e aveva un ombretto fantastico. Dentro il manuale c’era l’esempio passo-passo della creazione del personaggio di una giocatrice (sì, una donna!), una tosta guerriera di nome Morgan Ironwolf. In un’illustrazione mostrata più avanti nel libro, Morgan sembra avere una vita di circa 45 cm e i suoi capezzoli sono visibili attraverso la cotta di maglia. È un’immagine che fa ridere oggi, ma all’epoca lei appariva stupenda: pericolosa e pronta a combattere. Io volevo essere lei.

C’era solo un problema. Ero un ragazzo. O, almeno, questo è ciò che credevo di essere. Ma non mi veniva molto bene, comunque. La mia parlata, le movenze, le preferenze e le reazioni emotive erano in molti modi più simili a quello che ci si aspettava dalle ragazze. Sono stata chiamata “frocio” un sacco di volte, e non sapevo cosa significasse, ma mi arrivò chiaro il messaggio che non andava bene essere una ragazza, o niente di simile ad una ragazza, così scacciai ogni pensiero di interpretare Morgan Ironwolf o la dama con l’abito rosso.

E tuttavia i personaggi che giocavo non erano come i personaggi giocati dagli altri ragazzi. Ai miei personaggi importava delle creature che incontrava. Non volevano uccidere i mostri, volevano parlarci. Gli altri giocatori (tutti ragazzi) pensavano che fosse una cosa stupida, così imparai a uniformarmi. Ho iniziato a giocare personaggi più “virili” più preoccupati di “vincere” -il che significa uccidere orde di mostri e raccogliere montagne di tesori- come se fosse un gioco da tavolo. Ma una scintilla rimase, e non fu mai del tutto estinta.

Crescendo e facendo nuove amicizie, nuove possibilità si presentarono al tavolo da gioco. Ho giocato con gruppi più variegati di persone, in una gamma più ampia di ambientazioni. Oltre a scenari fantasy come quelli di D&D, ho giocato sessioni horror, investigative, fantascientifiche e altre ancora. Molti di quei giochi avevano meno a che fare con il superare ostacoli e lo sconfiggere nemici e più con le relazioni e lo sviluppo dei personaggi. Ho giocato spesso personaggi femminili. Qualche volta ho chiesto alle donne con cui giocavo quei titoli se fosse ok che io interpretassi una donna e, anche se acconsentivano sempre con entusiasmo, mi preoccupavo comunque che potessi mancare di rispetto. E se fossi risultata troppo effeminata? Avrebbero creduto che le stessi scimmiottando? Avevo il diritto di appropriarmi di un’esperienza che non era la mia, anche se per gioco? Ma continuai a giocare, e cominciai a riconoscere degli schemi ricorrenti nei personaggi a cui davo vita.

Per esempio, i miei personaggi amavano ballare. Ne avevano bisogno, come valvola di sfogo o come mezzo espressivo, o entrambe le cose. Ma io? Io non potevo ballare. Non è che non fossi brava a farlo. Fisicamente non riuscivo a impormi di ballare. Ma quando realizzai che i miei personaggi avevano questa cosa in comune, mi chiesi se forse non stessi tentando di dire qualcosa a me stessa. Così all’età di 29 anni andai al mio primo rave, e fu una rivelazione. Un muro tra il mio corpo e la mia mente fu demolito. Adesso condivido con i miei personaggi il bisogno di muovermi a ritmo di musica.

Avevo rivelato questa verità a me stessa aggiungendo questa caratteristica ai personaggi che giocavo? O i personaggi l’avevano tirata fuori da me? Nei suoi studi sul fenomeno noto come “bleed”, la ricercatrice e giocatrice Sarah Lynne Bowman ha documentato casi in cui tratti della personalità della persona che giocava si erano impressi nel personaggio, e viceversa. Non sapevo nulla di tutto questo, allora, ma cominciai a prestare maggiore attenzione a ciò che i miei personaggi potevano avere da dirmi. E uno di loro in particolare si fece sentire molto chiaramente.

A metà dei miei 30 anni, iniziai a capire di non essere cisgender. Ma a quel punto, temevo che per me fosse troppo tardi per la transizione. Inoltre avevo quest’immagine mentale molto precisa di come dovesse essere una donna transessuale: giovane, convenzionalmente attraente e iperfemminilizzata. Di certo non poteva essere alta un metro e 90 come me. Così mi rassegnai a vivere nella menzogna.

Ma i mondi immaginari dei giochi di ruolo erano un’altra cosa. Quando una cara amicizia mi invitò ad unirmi a una campagna di un gioco ad ambientazione contemporanea horror con elementi sovrannaturali intitolato “Trails of Cthulhu”, creai il mio primo personaggio transessuale, una ex-psichiatra caduta in disgrazia di nome Zelda. Un buon protagonista horror dovrebbe essere emozionalmente problematico, ma scelsi di non fare della disforia di genere una parte rilevante del suo mondo interiore. Zelda era zeppa di problemi, ma nessuno riguardava il rapporto che aveva con il suo corpo.

Interpretando lei, ho sperimentato ciò che la game designer e accademica Jonaya Kemper chiama “bleed emancipatorio”, nel momento in cui la serenità di Zelda nei confronti del proprio corpo cominciò a scavalcare la barriera tra la finzione e la realtà, arrivando fino a me. Zelda era vecchia e anonima, ma aveva scelto da sola cosa significasse per lei essere una donna. Sapeva di non poter raggiungere gli impossibili standard di bellezza e femminilità della società, ed era determinata ad essere sé stessa nonostante questo. Invece di preoccuparmi di come sarebbe stata percepita, mi sono divertita a giocare la sua bravura in psicologia, usando le sue abilità per contribuire a creare una storia indimenticabile con le mie amiche e i miei amici.

Durante quelle sessioni di gioco, sentii cosa volesse dire essere una donna per la quale la transizione non fosse più un’impresa imminente, ma un fatto compiuto. Essere lei mi fece vedere la transizione come qualcosa che potessi realmente fare. A lei non aveva fatto perdere il controllo della sua storia. Era semplicemente la sua vita.

Il gioco di ruolo di per sé non sarebbe stato sufficiente per aiutarmi a trovare la forza di volontà per fare coming out. Dubito che lo avrei fatto se non fossi stata circondata da persone care che mi hanno supportata o se non avessi vissuto a Toronto, dove la cultura ha fatto passi da gigante in termini di inclusione e accettazione delle persone trans. I veri eroi ed eroine della mia storia sono coloro che hanno fatto coming out prima di me, quando il mondo era molto meno gentile con le persone di genere non conforme. 

Ma in tutto questo, è stato il gioco di ruolo a fornirmi un catalizzatore e a darmi un assaggio di come sarebbe potuta essere la mia vita se l’avessi vissuta mostrando apertamente chi sono.

Twitter: @JoanMoriarity

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Joan Moriarity è una scrittrice, conduttrice e game mistress. È co-autrice di “Your Move: What Board Games Teach Us About Life” (“La Tua Mossa: Cosa Ci Insegnano i Giochi da Tavolo Sulla Vita”).